La sede Rivarossi di Sagnino e la sua vicenda edilizia

(di Bruno Pizzolante)

Ricordo ancora gli scossoni dell’autobus che s’inerpicava lungo la collina in quel grigio pomeriggio autunnale di metà anni Novanta in cui, da studente universitario di architettura al Politecnico di Milano, decisi di recarmi a Como a visitare il museo della Rivarossi. Era forte l’emozione nell’entrare in quello che da più parti si è addirittura definito, peccando forse un po’ di blasfemia, una sorta di “santuario” del fermodellismo mondiale.

Questo breve intervento ha lo scopo di illustrare, seppure a grandi linee e senza pretesa di esaustività, l’evoluzione edilizia dello stabilimento Rivarossi, con le sue successive espansioni necessarie a fronteggiare uno sviluppo che, negli anni migliori, diede lavoro a un gran numero di comaschi, facendo anche da polo attrattore per la crescita urbanistica della stessa area ove era ubicato. Negli anni Settanta l’azienda contava circa 300 dipendenti oltre ad un indotto di piccoli artigiani, che curavano varie fasi produttive, quantificabile in almeno altre 600 unità. Ci si concentrerà qui esclusivamente sullo stabilimento di Sagnino, tralasciando la prima piccola sede di Albese, di cui peraltro rende conto con dovizia di particolari il sito Rivarossi Memory, curato da Giorgio Giuliani.

L’avventura della sede storica di Rivarossi ha inizio il 21 ottobre 1946, quando al Protocollo Generale del Comune di Como giunge, a firma del signor Antonio Bernaschina, titolare dell’omonima impresa di costruzioni con sede a San Bartolomeo delle Vigne, e per conto della Ditta Elettromeccanica Riva Rossi, il “progetto per la costruzione di un fabbricato per uso uffici e magazzeni”.

 

Così doveva apparire dalla via Conciliazione il prospetto della primissima versione della nuova sede Rivarossi, nel progetto di Giuseppe Costamagna. Curiosa l’assenza di un’iscrizione personalizzata sopra l’ingresso, sostituita con un più generico alfabeto.

 

Il semplice edificio a due piani – uno era seminterrato – con un portoncino e cinque finestre sull’allora via Conciliazione, viene progettato dal p.i.e. Giuseppe Costamagna, ed è realizzato sul mappale 285 del foglio 4, Sezione Censuaria di Monte Olimpino, grazie alla disponibilità familiare del terreno, allora circondato solamente da campi coltivati e poche cascine. L’area, nei vari carteggi di allora, veniva identificata alternativamente come Tavernola, come Monte Olimpino o Sagnino (in realtà la definizione più corretta), data la vicinanza dell’omonimo piccolo aggregato, ma evidentemente in ditta si preferiva identificarla come Mognano. Questo probabilmente perché a Mognano, zona sita in realtà alcune centinaia di metri più a est, era ubicata la villa della famiglia Rossi, i noti industriali vicentini della lana, da cui Alessandro proveniva. Riportiamo, come curiosità, che due modelli di torri per l’acqua, presenti come accessori nel catalogo scala 00 del 1947, recano in quelle immagini la dicitura di stazione di Cassano e Mognano, al vero chiaramente mai esistite. Un romantico omaggio del N. H. (Nobil Homo, come lo si trova etichettato in alcuni documenti) Alessandro Rossi alle due lande ove aveva basato le sue attività.

Il progetto della nuova sede, superato l’esame della Commissione d’Ornato pochi giorni dopo, viene autorizzato dal Comune il 6 novembre 1946, e la considerazione che gli affari avrebbero preso la giusta piega è sicuramente sottolineata dal fatto che esattamente il giorno dopo il progettista, questa volta assistito dallo strutturista ing. Antonio De Santis, firma un “progetto di costruzione di un capannone in ferro per opificio”, costruito dalla Società Anonima Badoni di Lecco.

 

L’aspetto industriale del sito è ormai inequivocabile dopo la comparsa dei capannoni in ferro realizzati dalla Badoni di Lecco, in questa tavola generale del novembre 1946. Nel mezzo del cortile si legge “Area da adibire per futuri ampliamenti”, come ad ipotecare gli spazi in vista del grandioso sviluppo della produzione.

 

L’azienda questa volta non compare più come generica “Ditta Elettromeccanica” ma bensì come “Officina Miniature Elettroferroviarie”.

Nella relazione si legge che “il capannone in oggetto ha una superficie complessiva di 1007 mq e viene adibito ad uso industriale per la produzione in grande serie di modelli elettroferroviari in  miniatura. Il numero di operai per ora impiegati è di circa cento, tra uomini e donne in parti pressoché uguali”. E più avanti “nel cortile è prevista l’area per futuri ampliamenti”, quasi a prevedere il grande successo che avrebbe accompagnato l’azienda almeno sino ai primi anni Sessanta. Anche la via Conciliazione, come da previsione del Piano Regolatore, viene allargata in quell’occasione da 3,60 a 6,00 metri.

 

Una vista dal cortile, il prospetto delle testate ovest e una sezione dei capannoni in ferro. Si tiene conto dell’allargamento della via Conciliazione a 6 metri, come da previsione di Piano Regolatore.

 

Le attività procedono per il verso giusto, e dopo nemmeno una decina d’anni l’ing. Silvio Soncini progetta una nuova espansione.

Vista d’insieme del progetto dell’ing. Soncini. Si vede l’ampliamento della palazzina uffici, con la creazione di un dente di qualche decina di centimetri verso via Conciliazione, ed il nuovo spazio produttivo coperto a shed nella parte alta del disegno. Il nord è sulla destra.

 

Così nella relazione del 6 giugno 1955: “Ampliamento dello stabilimento Elettromeccanica Rivarossi e precisamente costruzione di due nuove campate di capannone coperte a shed. Detti capannoni sono interni allo stabilimento, senza alcuna fronte sulla Via Conciliazione. […] Inoltre è prevista la costruzione di un nuovo tratto di corpo doppio del fabbricato adibito ad uffici e laboratori e magazzeni, questo prospettante la Via Conciliazione”.

 

In questa tavola si nota l’aggiunta, al piano strada, degli ambienti della sala campionaria e degli uffici commerciale e contabilità, con le due nuove aperture verso strada. Lo stile del prospetto resta comunque il medesimo. All’interno degli uffici sono già riportati i nomi delle persone che li occuperanno: A.Rossi, Brunner, Ostinelli e G. Rossi.

 

Sono anni proficui, e l’attività è più che mai fervente all’interno dello stabilimento comasco: come piccola variazione sul tema principale dei nostri amati trenini si ricorda che nel 1955, in occasione del Salone dell’Auto di Torino, venne prodotto da Rivarossi un modello promozionale in grande scala, in un primo momento solo in serie limitata per i concessionari, della Fiat 600, seguito due anni dopo dalla Nuova 500. L’immensità di quel committente, così importante per la storia stessa del Paese, non spaventò certo i tecnici rivarossiani che si difesero egregiamente con la cura e la dedizione di sempre.

 

Il nuovo corpo sud-ovest progettato da Mario Valli, ammonta a soli 440 metri quadrati, e si tratta in sostanza dell’ultima vera espansione dello stabilimento in pianta.

 

Non sa star fermo Alessandro Rossi, e quattro anni più tardi gli spazi dell’azienda gli stanno già stretti. Viene quindi incaricato l’ing. Mario Valli, che il 17 febbraio 1959 scrive, come a sottolineare il carattere quasi “chirurgico” delle operazioni che si svolgono in azienda, “l’industria S.p.A. Rivarossi attualmente esistente in via Conciliazione n° 74 esplica la sua attività producendo miniature elettro-ferroviarie e pertanto tale produzione è caratterizzata da una grande precisione e pulizia, e non vi è in alcun punto sorgente di rumori o fumo o odori che possano in alcun modo turbare anche minimamente le zone vicine”. Viene sottolineato anche il fatto che “l’ampliamento progettato riguarda ad ogni modo solo in minima parte, e precisamente per mq. 210, il laboratorio di montaggio, mentre tutto il rimanente è adibito a servizi accessori”. Si voleva probabilmente dare più attenzione ai lavoratori, con cui Rossi aveva un rapporto quasi familiare, e ciò si intuisce anche da altri brani della relazione di progetto: “la parte fuori terra ampiamente finestrata è destinata a mensa aziendale e cucina per operai, i quali potranno anche usufruire come spazio di riposo del giardino antistante. […] Nella progettazione si è cercato di dare un aspetto decoroso a tutto il complesso e sia internamente che esternamente le finiture saranno improntate a carattere di modernità. […] In tutta la costruzione sono previste ampie pareti finestrate in modo da assicurare la massima luminosità e aerazione. Sia nella progettazione che nella realizzazione verranno seguite le migliori norme realizzative sia per quanto riguarda la statica e i margini di sicurezza, sia per le caratteristiche estetiche e architettoniche.

Non si tratta ad ogni modo di una grossa espansione – la nuova superficie coperta, posta a sud-ovest rispetto all’esistente, ammonta a 440 mq – e si va oramai delineando la fisionomia definitiva dello stabilimento, che permarrà sino al termine delle attività.

 

La vista da sud della nuova ala produttiva svela la natura leggermente accidentata del terreno su cui era ubicata la Rivarossi. Dalle aperture più alte del lato ovest il panorama si apriva sul grande scalo ferroviario di Chiasso: mai scenario fu più adatto a un’azienda che costruiva trenini!

 

Gli spazi però non bastano mai, pertanto di decide una nuova importante aggiunta, progettata nel 1960 e la cui costruzione viene ultimata nell’agosto del 1961, e questa volta non ci si espande in orizzontale anche perché l’area di proprietà è ormai quasi completamente congestionata. Si ricorre invece al sopralzo della palazzina in fregio alla via Conciliazione, che stavolta appare curiosamente nell’estratto catastale allegato al progetto come Strada comunale del Quarcino. Sono ancora tempi favorevoli per l’azienda comasca se nel progetto, sempre dell’ing. Valli, si legge che “in seguito alla grande attività svolta dalla ditta Rivarossi, si rende necessaria una notevole maggiorazione della sezione uffici.

In questo progetto si respira appieno l’aria di internazionalità che oramai da tempo connota l’attività di Rivarossi. La maggior parte della produzione dell’azienda viene difatti esportata in Germania, Svizzera, ma anche oltreoceano; negli Stati Uniti vengono venduti decine di migliaia di esemplari, anche grazie alla presenza di una rete di distribuzione particolarmente attiva, ma soprattutto alla elevata qualità dei prodotti, particolarmente apprezzata da un pubblico già molto più formato in materia rispetto a quello italiano.

Gli spazi interni del nuovo sopralzo non sono più divisi dalle solite pareti in mattoni; troviamo invece un modernissimo open-space configurabile secondo le necessità con pareti mobili.

Nel progetto di sopraelevazione del 1960 si nota immediatamente l’approccio moderno dell’open-space che garantisce flessibilità alla divisione degli spazi, da effettuarsi con pareti mobili. Viene introdotto in questa occasione l’ascensore.

 

L’approccio è diametralmente opposto rispetto ai primi ampliamenti degli anni ’50, nella cui planimetria sono persino individuati puntualmente gli uffici di Rossi, Ostinelli e Brunner.

Anche la finestratura abbandona gli usuali schemi pieno-vuoto e si trasforma in un unico nastro, sebbene il progettista specifichi sul disegno che “gli assi o i fili finestre devono coincidere con quelli sotto”, aggettante leggermente sulla pubblica via grazie ad una struttura metallica a sbalzo.

Viene in questa occasione introdotta anche l’importante innovazione tecnologica dell’ascensore che trova posto accanto all’ingresso principale.

Ma ciò che di questo progetto lascia maggiormente colpiti è sicuramente il disegno che ritrae la situazione proposta dal livello strada, inquadrando l’edificio da sud-est.

 

Si respira aria di U.S.A. in questo disegno dell’ing. Mario Valli, in cui viene presentato il sopralzo di un piano atto a ricavare nuovi spazi per gli uffici. Il mercato americano, che già da decenni aveva scoperto il modellismo ferroviario, assorbiva una fetta particolarmente consistente di questa particolare espressione del Made in Italy.

 

Due personaggi animano la scena, uno di loro – ci piace pensare si tratti di Alessandro Rossi in persona – si intravede dietro a una finestra del nuovo grande spazio, un altro è in strada e si sta avvicinando all’ingresso. Sullo sfondo il tetto dei due capannoni del ’46 e il profilo delle montagne con alcune auto posteggiate in strada. E qui, sorpresa delle sorprese, non ci sono le 600 o le 500 che popolano oramai copiose le strade d’Italia, ma un’enorme macchinona americana che, con le sue forme inequivocabilmente streamline, ruba quasi la scena all’oggetto principale del disegno. Mancherebbe solo una bella Big Boy fumante – che al vero effettuò la sua ultima corsa proprio in quegli anni, per la precisione nel luglio del 1959 –  per poter ubicare l’edificio in una qualche cittadina della Pennsylvania! Non mi è dato di sapere se qualcuno in azienda fosse proprietario di quell’automobile, ma di sicuro già nella fase dei ragionamenti progettuali si strizzava l’occhio all’America, che tanta parte aveva avuto e continuava ad avere nelle fortune dei trenini lariani.

Negli anni successivi la Rivarossi deve però purtroppo sopportare alcune gravi crisi finanziarie, come quella del 1963 in cui vi fu una sensibile riduzione del fatturato con perdite per oltre 65 milioni di lire, o quella del 1972 con un negativo di oltre 135 milioni, sino alla Cassa Integrazione Straordinaria per tutto il personale dipendente, introdotta nel settembre del 1981 ed alla successiva scelta del ricorso alla procedura dell’Amministrazione Controllata. Non si rende conto in questi anni di particolari stravolgimenti edilizi. Si attuano tendenzialmente operazioni tese ad adeguare gli edifici ai nuovi apparati normativi intervenuti nel frattempo, oltre ovviamente che a mantenere l’esistente nel migliore stato di funzionalità possibile, anche con alcune opere interne che rivedono la distribuzione degli spazi, adeguandola alle nuove necessità. Per completezza d’informazione si segnalano i nomi degli architetti Giuseppe Antonacci e Gabriele Roncoroni di Como, oltre che del p.i.e. Sergio Mattioli di Cernobbio, progettisti che hanno collaborato in quegli anni con Rivarossi, ahimè ormai solo inquilina di quei luoghi passati nel frattempo ad altre proprietà, tra cui la Penteco S.p.A. di Milano. Dopo la riorganizzazione aziendale del 2000, la produzione di Rivarossi e delle altre società nel frattempo inglobate nel gruppo viene localizzata in provincia di Vicenza, nella sede di Lima S.p.A., e lo stabilimento viene abbandonato, per essere definitivamente demolito otto anni più tardi.

Oggi sull’area sono stati costruiti tre edifici da sei piani destinati a residenza e commercio, e nella piazza antistante al complesso è stato posato il 3 marzo 2013 un monumento alla memoria del Nobil Homo Alessandro Rossi, spentosi a Cortina d’Ampezzo, dove viveva da tempo con la moglie, il 16 ottobre del 2010.

Una curiosità per chiudere riprendendo il tema iniziale del “santuario”. Il monumento ad Alessandro Rossi, ideato dall’architetto Paolo Albano, è stato posato alle coordinate geografiche 45°49’55,10” – 9°02’40,60”, luogo ove nel progetto del 1955 è ubicata la tipografia aziendale. E noi vogliamo immaginare che proprio da quel luogo siano usciti tutti i cataloghi e gli stampati promozionali della Rivarossi, veri “testi sacri” per tutti gli appassionati dei trenini lariani nel mondo.

 

 

Un'immagine aerea dello stabilimento databile negli anni tra il 1955 e il 1959, ovvero tra gli interventi di costruzione del corpo a shed di Soncini e l'aggiunta sud-ovest dell'architetto Valli. Se si escludono i primi interventi di edilizia economico-popolare, solo campi e poche cascine convivono con l’edificio. Nella parte in alto a destra dell'immagine s’intravede un'ala della Villa Baragiola, di proprietà della famiglia materna di Alessandro Rossi.

 Bruno Pizzolante

 

Articolo tratto da Talea- Speciale Rivarossi-Como del Marzo 2013 uscito in concomitanza con la mostra del Broletto.

Grazie all'autore, all'associazione Como in Treno e a Roberto Ghioldi curatore della rivista.