10/03/2007 Incontro col FONDATORE: Alessandro Rossi

(di Giorgio Giuliani)

 

Trovarsi di fronte ad un mito del modellismo ferroviario internazionale è una cosa che  mette i brividi. Ma Alessandro Rossi, classe 1921, una signorilità e una cortesia d’altri tempi, riesce a farci sentire subito a nostro agio. 

Discendente diretto dell’omonimo Alessandro Rossi, grande imprenditore, filantropo e pioniere dell’industrializzazione italiana, che nella seconda metà dell’ottocento col “Lanificio Rossi” di Schio possedeva la più grossa industria italiana dell’epoca, poi divenuta Lanerossi.

Cinque anni di ingegneria al Politecnico di Milano, ufficiale di complemento durante l’ultima guerra, al termine delle ostilità il giovane Alessandro è deciso a lanciarsi nell’imprenditoria, come i suoi avi.

  

Alessandro Rossi in una foto del 1957

Innanzitutto, come si è avvicinato al mondo del modellismo ferroviario?

 Ho cominciato coi treni per passione. Da piccolo mi avevano regalato un treno di latta a molla della Meccano (Hornby!) e mia madre, con scatole di fiammiferi incollate, mi aveva costruito anche una piccola stazione. Da allora  come regalo di natale chiedevo sempre trenini … anche se non sempre mi compravano quelli che volevo io!  Pensi che da bambino avevo un quaderno dove ad ogni persona che conoscevo, facevo disegnare un treno. Crescendo mio padre mi aveva abbonato al magazine Meccano sia inglese che francese, e lì ho imparato i primi termini  tecnici.

 

Come è nata Rivarossi e chi era Riva?

 Nel 1945, grazie ad una piccola eredità, ho rilevato una quota societaria di una fabbrica di commutatori elettrici.  Riva era già socio in questa ditta, ma è uscito quasi subito: quando si è reso conto delle novità, del cambio di prodotto che avevo in mente, si è defilato.

 

Come era il mercato del fermodellismo all’epoca e chi era il vostro target, bambini o adulti?

 In Italia non c’era nessun produttore, Conti e Lima hanno cominciato poco dopo. Le marche di riferimento allora erano Marklin e Trix. La nostra produzione iniziale era indirizzata ai bambini. Il problema erano i padri, abituati a trenini che andavano come razzi, mentre io puntavo a fare modelli dalle velocità più reali.

 

Un mercato ed una produzione completamente nuova,  quali erano i suoi riferimenti e i suoi modelli?

 Presi a modello il sistema Trix che però allora era in corrente alternata. Dopo alcune prove scelsi di utilizzare la corrente continua: era più semplice ed efficace e permetteva di far muovere anche più  locomotive nello stesso senso di marcia. Ma realizzare ruote isolate era un problema, perché volevo solo ruote tornite -con torni da orologeria- per garantire un perfetto rotolamento.

Solo successivamente siamo riusciti a realizzare le ruote isolate indispensabili per il sistema a due rotaie, mentre all’inizio adottai un sistema a corrente continua a tre rotaie. Anche per il propulsore presi spunto da Trix e adattai il loro motore alla corrente continua. La locomotiva americana Atlantic 4-4-2 Hiawatha è stata la prima con quel tipo di motore.

 

La plastica è stata un’enorme innovazione, è stato effettivamente il primo ad utilizzarla?

 Per quanto ne so sono stato il primo ad utilizzarla in questo settore. Alla Fiera di Milano, allora la più grande vetrina dell’industria italiana, vidi che mettevano un po’ di povere di plastica in uno stampo, chiudevano la pressa … ed usciva un portacenere. Già fatto e finito. Mi resi conto che utilizzando la plastica (bakelite) c’era la possibilità di un dettaglio molto maggiore dei modelli in metallo, in latta o in fusione che fossero.

  

La scala. Molti fermodellisti di oggi storcono il naso di fronte alla produzione in scala 1:80, da cosa nasceva quella scelta?

 Allora il modellismo ferroviario non c’era ancora: non si parlava di treni in miniatura ma di giocattoli. Io ho cominciato con lo 00. L’H0 in Europa non esisteva, il riferimento era lo 00 inglese. Anche Marklin e Trix facevano modelli in 00 (lo 00 inglese sarebbe 1:76,2 ma fondamentalmente mancava, da parte di tutti i costruttori , la volontà della ricerca della scala esatta, ndr)-

L’utilizzo dell’H0 in Europa è stato definito dopo, con la nascita del MOROP (MOdelbhan EuROPe, associazione tra i club di amatori del modellismo ferroviario, 1954 ndr) che ha cercato di introdurre il concetto di “modellismo ferroviario” e norme tecniche comuni per i produttori europei. Non era facile, perché ogni produttore cercava di fare prevalere il proprio sistema. Io divenni consulente tecnico del MOROP e ho contribuito a definire queste norme appoggiandomi molto alle normative americane.

Come produzione per il mercato americano, visto che là esistevano già standard definiti, cominciai fin da subito con la loro scala, l’H0.

 

Siete stati sempre molto attenti al mercato americano, fin dall’inizio. Come venivano scelti i modelli da riprodurre?

  La Dockside 0-4-0 era stata proposta dal nostro importatore americano. C’era la richiesta di una macchina versatile adatta anche per piccoli impianti. La prima realizzazione di questa locomotiva era brutta, era stata desunta dalle foto, senza disegni originali. La seconda invece non era male.

 

I dati tecnici,  le misure delle macchine come venivano reperiti?

 Per le locomotive americane era il nostro importatore che reperiva i disegni originali. Come ho detto, il primissimo stampo della Dockside era stato desunto da foto o poco più per rispondere al mercato, ma non appena siamo venuti in possesso dei dati tecnici reali abbiamo provveduto a rifare uno stampo corretto ed in scala H0, secondo gli standard degli USA.

Per i rotabili italiani avevamo contatti con le FS, anche se su alcuni prototipi ci hanno dato informazioni sbagliate, ad esempio colorazioni poi non realizzate.

 

Uno dei punti di forza di Rivarossi erano i motori, affidabilissimi anche oggi, dopo 50 anni, come nascevano?

Il motore era un problema delicato. Noi volevamo motori “uguali”, cioè con lo stesso numero di giri in base al voltaggio, per poter far correre due locomotive sul medesimo tracciato alla stessa velocità

Gli alberi dei motori erano in acciaio speciale, torniti con torni da orologeria, successivamente termo-induriti e poi rettificati con una tolleranza di 2 micron. Venivano collaudati a 18000 giri  contro i 16000 per cui erano garantiti. Ricordo che sono stato uno dei primi a cercare di fare produrre in Cina, a Hong Kong che a quel tempo era inglese, ma la manodopera era cinese. Come prova ho fatto fare 1000 motori laggiù ma in fase di collaudo e verifica ne abbiamo tenuti solo 200. La velocità dei motori non era uniforme!

Le carrozzerie le facevano bene, utilizzando i nostri stampi che  erano di grandissima qualità, ma i motori non erano perfetti come li volevamo noi. E fare produrre a Hong Kong le carrozzerie per assemblarle in Italia con i motori prodotti da noi non era conveniente. Quindi non se ne è fatto nulla e abbiamo continuato a produrre in Italia.

 

 

 

Avete dedicato anche molta attenzione ai cataloghi, chi li curava?

 I primi li facevo io e li stampavamo in fabbrica. Del primo disegnai anche la copertina. Poi  con l'aumento della produzione ci fu la necessità di realizzare cataloghi più curati e allora li facemmo stampare a Milano.  I cataloghi venivano preparati solo con foto e disegni,  senza testi, che venivano inseriti successivamente con le suddivisioni per lingua. La traduzione in inglese e francese la facevo io stesso. Il problema è che in inglese e americano alcuni termini tecnici differiscono, quindi per i rotabili statunitensi usavo l’americano e per quelli europei l’inglese. Le copertine dei cataloghi le disegnava il mio amico Della Costa, ma la copertina di un supplemento di catalogo con la “Littorina” l’ho fatta io, perchè in quei giorni Della Costa era malato. Consideri che il catalogo lo stampavamo in oltre 100.000 copie.

 

E  “H0  Rivarossi -  rivista di modellismo ferroviario”?

Anche quella la redigevo io e la stampavamo nel nostro stabilimento. Il modello di riferimento erano le riviste “Meccano”  della mia infanzia attualizzate. Poi a malincuore ho dovuto lasciarla: non avevo più tempo, stavamo sviluppandoci rapidamente e non riuscivo più a seguirla come avrei dovuto.

 

 

Avete dedicato sempre particolare spazio ai plastici, anche questi li facevate voi?

 Si, anche questi erano fatti dai miei collaboratori. Mi ricordo che il primo plastico, eravamo ancora a Cassano Albese, l’abbiamo fatto in ditta. Era il primo anche per me, dotato di  linea aerea ma con rotaie non ancora di nostra produzione. Lavorammo fino all’ultimo per riuscire a finirlo in tempo per l'esposizione alla Fiera del giocattolo di Milano. Allora avevo una Topolino cabriolet e per portarlo a Milano lo caricammo sul carrello della mia barca. C’eravamo io al volante, mia moglie e due dei miei per tenermi sveglio, perché per finirlo non avevo dormito da giorni …  ma arrivammo in tempo.

 

Organizzazione aziendale, facevate tutto all’interno?

 La stampa delle carrozzerie era fatta da terzisti, artigiani di altissima qualità. Il montaggio e la verniciatura li facevamo internamente. Negli anni ’70 avevamo quasi 300 dipendenti e un indotto, difficile da quantificare con precisione, di circa altre 600 persone.

Noi eravamo artigiani, ma con sistemi produttivi industriali.

  (Colpisce l’importanza riservata dall’ingegner Rossi ai collaboratori: mai dipendenti, molte volte lodati e ricordati sempre con un affetto ricambiato ndr).

 

E gli stampi?

 Fare gli stampi era costosissimo! Quelli che preparavano i modelli per poi fare gli stampi erano veri artisti. E io pretendevo che gli stampi fossero perfetti, in acciaio di altissima qualità per durare nel tempo e garantire sempre prodotti omogenei, senza bave. La Big Boy è stata fatta in qualche centinaia di migliaia di esemplari e la qualità era sempre perfetta, ma quanto costavano quegli stampi!

 

 

Rivarossi è famosa anche per la cura del particolare.

 Sì, ad esempio il ricciolo che regge lo sbalzo del tetto delle carrozze FNM, era stato fatto passante e per l’epoca fu  una cosa eccezionale. Alla mia richiesta  uno stampista si era rifiutato, ma un altro aveva detto “ ci provo” e quando ce l’ha portato, passante come avevo chiesto, era orgogliosissimo.

Il montaggio dei modelli era fatto a mano e  la parte meccanica era prodotta con torni da orologeria. Le tampografie le propose il mio capofficina perché prima usavamo solo decalcomanie. Aveva scoperto questo metodo in una fabbrica di Como che faceva quadranti per orologi.  E le tampografie dovevano essere sempre perfette e le righe dovevano essere sempre dritte, non era uno scherzo.

Ma prestavo anche grandissima attenzione al  peso e al  bilanciamento delle locomotive, perché oltre che belli i nostri modelli dovevano funzionare bene!  Con una BigBoy ho trainato 325 carri merce americani (oltre 47 metri!! ndr). Avevamo steso i binari per la prova nel garage dello stabilimento, ovviamente in piano e con curve ampie da 120 cm.

 

Anche sul packaging eravate all’avanguardia.

 La prima volta che sono stato in America sono andato in giro per i negozi per vedere cosa c’era e cosa  proponevano. Ho notato che usavano scatole belle, stampate a colori vivaci. Le nostre scatole di allora erano semplici contenitori, grigie ed anonime, come tutte quelle europee peraltro. Allora ho cominciato a pensare a confezioni attraenti, che mostrassero il modello contenuto, così arrivammo alla nostra famosa scatola rossa.

 

Anche per le stazioni e l’arredo ferroviario siete stati i primi. Come sono stati scelti i modelli da riprodurre?

 Inizialmente abbiamo fatto alcune cose in legno, che ci produceva un artigiano della zona. Poi abbiamo realizzato le stazioni in plastica. Le avevo viste (Pergine, San Nazario e Dubino) quasi casualmente mentre ero in viaggio. Mi ricordo ancora delle misurazioni fatte sul posto con l’aiuto dei miei tecnici, gente molto in gamba. Per tranquillizzare il personale FS, che spesso ci guardava con sospetto, bastava un modello ed il nostro catalogo, che ovviamente portavamo sempre con noi.

 

E Arnaldo Pocher?

 Arnaldo Pocher, bravissima persona, un amico, ma avevamo una visione lievemente differente del modellismo.

 

Domanda indiscreta, avete fatto anche modelli “inventati” esempio le ADAR, la Badoni elettrica ... come mai?

Per le richieste del mercato (allora meno esigente di oggi ndr)  Eravamo un’industria con dipendenti e conti da pagare, ogni nuovo stampo costava un’enormità, era necessario ottimizzare al massimo quanto si aveva in casa.

 

Ad un certo punto è uscito dalla Rivarossi (nel 1980 abbandona le cariche sociali, ma resta come consulente fino alla fine degli anni ’80, ndr), se dovesse fare un bilancio personale?

 A fare il mio lavoro mi sono divertito, ho girato il mondo per fare conoscere i miei treni e ho avuto anche i miei problemi, ma ho fatto una cosa che mi piaceva … e avevo dei collaboratori che lavoravano con lo spirito giusto, con impegno e dedizione.

E’ stato fatto tutto per passione non per fare soldi.

 

FOTO RICORDO DELL'INCONTRO

Massimo Cecchetti e Alessandro Rossi

Giorgio Giuliani e Alessandro Rossi

 

Questa intervista, con un eccezionale serie di fotografie di modelli Rivarossi, è uscita sulla rivista "TUTTO TRENO"  di maggio 2007

 

Il Fondatore Giugno 2008 a Pranzo con Rossi